Revising European Treaties, Lucia Serena Rossi, 11 November 2013, EUI, Florence

Firenze, 11 novembre 2013, relazione di Lucia Serena Rossi al convegno Revising European Treaties

 

L’Unione Europea e il paradosso di Zenone. Riflessioni sulla necessità di una revisione del Trattato di Lisbona.

Lucia Serena Rossi

Abstract: This article assesses the need for a revision of the Treaty of Lisbon in a constitutional perspective. It starts out by arguing that a revision should address economic, institutional, and constitutional issues. It is submitted that -as in the Zeno’s Paradox of Achilles and the tortoise- the EU seems committed in a never-ending march towards an ultimate goal which seems to remain out of reach. The article then analyses the different revision instruments introduced by the Lisbon Treaty, in order to understand what procedures may be required to amend the existing Treaties in crucial areas. Finally, it explores the possibility of revisions on a smaller scale, by means of differential integration.

Sommario: I. I problemi non risolti dal Trattato di Lisbona – II. Gli elementi per superare un trattato “quasi–costituzionale” -III. Gli strumenti di revisione dei Trattati dopo Lisbona e il nodo dell’unanimità -IV. Modifiche che non necessitano di una revisione dei Trattati. -V. Due nuovi Trattati?

I. Quando il Trattato di Lisbona entrò finalmente in vigore, il 1° dicembre 2009, la maggior parte dei politici e commentatori tirò un sospiro di sollievo. Il Trattato era stato firmato due anni prima (il 13 dicembre 2007) e giungeva dopo la débacle del Trattato istitutivo della Costituzione per l’Europa. Il processo di revisione era stato così gravoso che il solo pensiero di intraprendere nuovamente una revisione sembrava un incubo; inoltre, il nuovo Trattato era così pieno di innovazioni, che esplorare – e sfruttare – tutte le sue potenzialità sembrava avrebbe richiesto molto tempo.

Sono invece bastati appena un paio di anni perché gli Stati Membri modificassero alcuni dei Protocolli allegati al Trattato1, così come i Trattati stessi2, e perché riemergesse, a livello politico3, l’idea che i Trattati hanno bisogno di una nuova, più ampia revisione. I Trattati esistenti, basati su un debole compromesso tra visioni conflittuali del destino dell’Unione europea (UE), sembrano infatti inidonei a rispondere ad una crisi che colpisce l’Unione sotto diversi profili e che spinge ad indagare quali riforme siano necessarie -e con quali strumenti attuarle- per rispondere alla stessa.

La crisi che investe l’Unione e sembra metterne in gioco la sopravvivenza è legata a problemi al tempo stesso economici, di leadership politica e di identità costituzionale. Si tratta di aspetti che tutti contribuiscono ad alimentare un’unica spirale, con conseguenze negative reciproche, e che tutti dovrebbero dunque essere affrontati simultaneamente, innovando coraggiosamente il sistema attuale.

Cominciando dall’aspetto che oggi si pone maggiormente al centro del dibattito pubblico europeo, vale a dire quello economico, occorre rilevare che il Trattato di Lisbona, nonostante abbia per la prima volta chiarito il sistema delle competenze dell’Unione europea, non ha attribuito a quest’ultima le competenze necessarie per affrontare la crisi economica dell’eurozona.

L’Unione europea infatti, mentre ha una competenza esclusiva in materia monetaria, nella politica sociale, dell’occupazione ed economica dispone solo di un debole potere sostenere, coordinare o completare le politiche degli Stati Membri4. Di conseguenza, in tali aree, così cruciali e indiscutibilmente connesse con le politiche monetarie, le istituzioni dell’Unione europea per lo più fanno uso di strumenti basati sul cosiddetto metodo di coordinamento aperto, che, ormai da molto tempo, si è rivelato del tutto inefficace.

Come risultato di tale squilibrio di competenze, gli Stati Membri dell’Eurozona si trovano bloccati in una situazione in cui, da un lato, sono tutti destinati a seguire lo stesso corso in materia monetaria, e, dall’altro, a procedere separatamente, e spesso in competizione tra loro, nel definire le proprie politiche economiche. Se nelle aree di politica sociale, dell’occupazione, ed economica, fosse attribuita all’Unione europea, anziché una semplice competenza di appoggio, una competenza concorrente, le istituzioni dell’UE sarebbero autorizzate ad adottare strumenti vincolanti per tutti gli Stati Membri, o almeno per quelli dell’eurozona.

In secondo luogo, l’attuale assetto istituzionale non favorisce l’emergere di una chiara leadership nell’Unione europea, in particolare a causa del progressivo indebolimento della Commissione europea, associato al parallelo spostamento verso il metodo intergovernativo.

Si tratta di un fenomeno preoccupante, in quanto la Commissione, al di là dei suoi ruoli di proposta normativa e di esecuzione, è l’istituzione che deve garantire il controllo sull’uniforme rispetto del diritto dell’UE da parte degli Stati membri, perseguire l’interesse generale e la coerenza fra le varie politiche europee. In origine peraltro, l’elaborazione di proposte normative UE implicava anche la fissazione delle priorità politiche, il che consentiva alla Commissione di assumere il ruolo di guidare la Comunità verso una crescente integrazione. In seguito, come poi è stato riconosciuto dal Trattato di Lisbona5, il compito di stabilire gli orientamenti dell’UE è stato assunto dal Consiglio europeo, con un coinvolgimento marginale ma crescente del Parlamento europeo, mentre il ruolo della Commissione nella stesura di norme UE è diventato meramente tecnico.

La ridotta influenza della Commissione nella definizione delle priorità generali, a beneficio di istituzioni che hanno una maggiore legittimità politica, può avere anche risvolti positivi legati ad una maggiore incisività, ma una deriva del sistema UE verso il metodo intergovernativo comporta sicuramente alcuni rischi. La crescente dipendenza della Commissione dalle decisioni intergovernative, il suo basso profilo in qualsiasi decisione avente contenuto politico, e il suo limitato opporsi alla volontà degli Stati Membri più influenti suggeriscono che la Commissione stia progressivamente trasformandosi in una sorta di segretariato del Consiglio europeo. E tuttavia, una Commissione forte e indipendente è ancora necessaria, perché quest’ultima rimane l’unica istituzione la cui missione è guardare all’interesse generale e, assieme alla Corte di giustizia europea, garantire l’uguaglianza degli Stati Membri davanti alla legge, come è prescritto dal trattato di Lisbona (art. 4.2 TUE). Di conseguenza, una Commissione debole – e un indebolimento del metodo comunitario– può solamente ricadere a vantaggio degli Stati più potenti.

Per tutte queste ragioni, nel dibattito emerso recentemente, ci si domanda se le riforme istituzionali previste dal Trattato di Lisbona siano sufficienti e appropriate. Alcuni politici6, per esempio, hanno chiesto l’elezione diretta del Presidente della Commissione7, in modo da rafforzare il profilo politico, l’indipendenza e l’autorità di quest’ultima, che in questo modo acquisirebbe una legittimità democratica simile a quella del Parlamento europeo e non derivata da quest’ultimo.

Infine, oltre alla necessità di gestire la crisi europea e alla deriva verso il metodo intergovernativo, si afferma in maniera crescente un problema di carattere identitario, legato alla natura ed al destino dell’Unione europea. Dopo il fallimento del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, rimane la questione se il sistema UE debba essere governato da una vera Costituzione, che conferisca, e al contempo limiti, i poteri all’Ue. Se si volge lo sguardo indietro è indubbio che grandi passi siano stati fatti verso una direzione che potrebbe portare a degli Stati Uniti d’Europa, ma il traguardo, pur non essendo molto distante, sembra sempre più difficile da raggiungere, perché, come nel paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga, la strada verso l’obiettivo è suddivisa in un numero infinito di nuovi passi8.

Nel paragrafo seguente si cercherà di comprendere come il Trattato di Lisbona si situi su questo cammino e quali modifiche siano necessarie per conferire al sistema un carattere più costituzionale, mentre in quelli successivi si analizzeranno strumenti, obiettivi specifici e strategie per una revisione del Trattato di Lisbona.

II. L’Unione europea non può più essere considerata solo un’organizzazione internazionale, ma non può neppure essere descritta come uno Stato federale o una confederazione: come la Corte di Giustizia europea ha affermato in Van Gend & Loos9, si tratta di un ordinamento giuridico di nuovo genere nel panorama internazionale.

Il modo migliore per definire l’Unione europea sembra però quello di considerarla non solo come un ordinamento, ma anche e soprattutto come un processo di integrazione. Essa infatti è a contempo un ordinamento ed un processo, a seconda che la si guardi nel suo aspetto statico o nella sua dinamica evolutiva. Se si considera il suo profilo evolutivo, l’Unione europea appare muoversi lungo una traiettoria di integrazione ed è ora in una zona grigia, a metà strada tra un’organizzazione internazionale e un sistema costituzionale. Questo può spiegare perché l’UE, pur essendosi significativamente evoluta rispetto al modello iniziale della CEE, ancora assomiglia poco agli altri modelli esistenti. La continua evoluzione rende il sistema UE instabile, e non è una sorpresa che anche il Trattato di Lisbona non sia in grado di segnare l’epilogo del processo di integrazione.

Il Trattato di Lisbona potrebbe essere descritto come un Trattato quasi-costituzionale, dal momento che gran parte dello sfortunato Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa è stato incorporato in esso. La definizione delle competenze, l’ampio uso di principi e valori fondamentali, e la forza vincolante della Carta dei Diritti Fondamentali sono tutti riconosciuti come elementi che elevano i Trattati dell’UE ad un ruolo costituzionale.

Certo il Trattato di Lisbona può contribuire alla creazione di una sorta di costituzione ‘materiale’, ma rimane il problema che né i cittadini né gli Stati Membri lo riconoscono come una costituzione.

Che cosa potrebbe dunque trasformare un Trattato quasi-costituzionale in uno costituzionale?

Innanzitutto, ai fini della “visibilità costituzionale”, acquistano rilievo degli elementi di carattere formale. In primo luogo, sarebbe necessaria un’approvazione solenne attraverso una procedura che i cittadini possano riconoscere come costituzionale. In questo senso, una revisione mediante Convenzione si presenterebbe innegabilmente come più ‘costituzionale’ rispetto ad una classica conferenza intergovernativa (CIG) o ad una decisione del Consiglio europeo. La procedura di revisione ordinaria (su cui v.oltre) sembra dunque più adatta a questo scopo, anche se indubbiamente più lunga e farraginosa.

In secondo luogo, il Trattato di Lisbona non ha non solo il nome10, ma nemmeno l’aspetto di una costituzione. Non solo esso è stato svuotato dei simboli costituzionali (che erano presenti nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa), ma la sua eccessiva lunghezza e la partizione in due ridondanti sotto-trattati -i cui confini sono segnati piuttosto impropriamente- non aiutano a farlo somigliare ad una costituzione. Mentre infatti le parti I e II del Trattato costituzionale avevano una chiara impronta costituzionale, il TUE, non solo non è stato disegnato -come invece avrebbe potuto- in maniera costituzionale, ma si sovrappone in diversi punti al TFUE; è invece in quest’ultimo che sono state relegate alcune parti “costituzionali”, quali le regole sulle competenze.

Ma ancora più importanti per far compiere al sistema un “salto costituzionale” sarebbero alcune innovazioni di carattere sostanziale. L’attuale ripartizione delle competenze tra l’UE e gli Stati membri – anche se più chiara dopo Lisbona11 – non ha ancora molto senso dal punto di vista costituzionale. In questa prospettiva, la PESC, che rimane un vero e proprio “pilastro-fantasma”, dovrebbe diventare una politica più ‘normale’, assieme alle politiche economiche, occupazionali e sociali, in cui il metodo di coordinamento aperto, che in gran parte ancora le disciplina, dovrebbe essere sostituito dal più efficace metodo comunitario.

Inoltre, un sistema costituzionale dovrebbe chiarire definitivamente, ed esplicitamente, tutte le questioni relative alle fonti del Diritto dell’Ue, come ad esempio il primato, l’effetto delle direttive, e la posizione del Diritto internazionale nella gerarchia UE.

Il primato del Diritto dell’Ue sulla legislazione degli Stati membri è probabilmente il principio più fondamentale dell’ordinamento giuridico dell’Unione, e tuttavia soffre di due paradossi. Il primo è che nonostante siano passati quasi cinquanta anni da quando questo principio è stato enunciato dalla Corte di giustizia12, ancora non è menzionato dai Trattati: mentre il Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa si riferiva espressamente ad esso, il Trattato di Lisbona lo confina alla forma di una semplice Dichiarazione (n. 17)13.

Il secondo paradosso è che, per quanto tutte le Corti supreme o costituzionali nazionali riconoscano la supremazia del Diritto dell’Ue, esse hanno espresso alcune “riserve costituzionali”14, che, pur essendo formulate in diverso modo, sembrano in ultima analisi tutte ruotare attorno ad un’idea di identità costituzionale nazionale15.

Di conseguenza, gli Stati membri potrebbero applicare questo principio fondamentale – e costituzionale – in diversi modi. In effetti, anche se ciò non accade nell’applicazione quotidiana del Diritto europeo, il cui primato sulla legislazione ordinaria degli Stati membri non è in discussione, è pur sempre possibile che esso entri in conflitto con i principi fondamentali di una costituzione nazionale. Ciò è dimostrato dal recente risveglio delle Corti costituzionali nazionali dopo le sentenze pronunciate dalla Corte costituzionale federale tedesca e dalla Corte polacca16 sul Trattato di Lisbona. La Corte costituzionale ceca il 31 gennaio 2012 ha giudicato la sentenza della Corte di giustizia europea nella causa Landtová17 come pronunciata ultra vires18. Il 5 Aprile 2013 la Corte Costituzionale portoghese ha dichiarato che un piano per ridurre la quantità di ferie per i dipendenti pubblici, un piano adottato per rendere effettivo il Fiscal Compact, era incostituzionale perché incompatibile con il principio di uguaglianza; la stessa Corte ha anche più recentemente deciso l’incostituzionalità dei tagli all’indennità di malattia e di disoccupazione (anche questi adottati per perseguire stesso obiettivo), con la motivazione che tali tagli erano in conflitto con il principio costituzionale di proporzionalità19. Infine, il 24 aprile 2013, la Corte costituzionale tedesca ha reagito alla sentenza della Corte di giustizia europea Åklagaren v Hans Åkerberg Fransson20, anch’essa invocando l’argomento ultra vires21.

Dietro questa apparente dissonanza ai vertici del sistema, si delinea un nuovo concetto di gerarchia costituzionale che va al di là della c.d. multilevel governance, quest’ultima potendo spiegare l’intreccio di competenze solo ai livelli inferiori dell’ordinamento europeo.

In base a questa nuova configurazione, l’ordinamento giuridico dell’UE si potrebbe descrivere come una sorta di piramide22 con il vertice troncato a forma di piano, in modo da ospitare non una sola fonte, ma un insieme di fonti tutte supreme: alla base della stessa si trovano le leggi nazionali (così situate perché soggette al diritto dell’Ue), in un livello intermedio il diritto materiale dell’UE, quindi le fonti internazionali che vincolano l’Unione e i suoi principi generali e nella parte superiore i principi fondamentali dell’UE, fra cui rientrano anche i più alti principi di ogni identità costituzionale nazionale.

E’ questa l’idea di una sovranità condivisa, che con il Trattato di Lisbona viene confermata anche dall’art. 4(2) del TUE23 e dal preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE24, i quali richiedono entrambi all’UE a rispettare le identità nazionali. Nell’era post-Lisbona, la Corte di giustizia europea ha già applicato alcune volte il rispetto da parte dell’UE dei principi fondamentali degli Stati membri25, anche se nelle sentenze Kamberaj 26e Melloni 27 ha ribadito il principio della supremazia del diritto dell’Ue.

Per chiarire questa coesistenza al top della gerarchia delle fonti fra primato e principi provenienti da diversi ordinamenti e la relazione complessa che intercorre fra il primo e gli ultimi, che già richiede continui aggiustamenti reciproci fra le giurisdizioni supreme degli Stati membri e la CGUE, sarebbe necessaria una modifica del Trattato di Lisbona che enunci più chiaramente la rispettiva forza dei principi che regolano il rapporto tra diritto dell’UE e diritto nazionale.

Secondo alcuni autori28, un nuovo equilibrio dovrebbe essere stabilito, che favorisca il rispetto delle identità nazionali. In proposito si può suggerire che in una futura revisione del Trattato di Lisbona, l’art. 4 TEU – che afferma l’obbligo reciproco di leale cooperazione tra l’Unione e gli Stati membri 29- venga modificato, inserendovi anche il principio del primato. Una tale modifica potrebbe chiaramente codificare in termini costituzionali, per tutti i cittadini, una situazione che è ora evidente solo per i cultori del diritto dell’UE.

Ancora più occultato, ora come in passato, è il principio dell’effetto diretto, che non viene nemmeno menzionato nel Trattato nonostante i tanti anni trascorsi da quando la Corte di giustizia lo ha stabilito con riferimento prima al Trattato stesso30 e poi alle direttive31 e a determinati accordi conclusi dalla UE32. Il principio dell’effetto diretto è rivolto proprio agli individui, che possono rivendicare direttamente – nei confronti di uno Stato Membro e dinanzi a qualsiasi giudice nazionale – i benefici derivanti dal diritto dell’Ue. Purtroppo, il principio, soprattutto per quanto riguarda le direttive e gli accordi internazionali conclusi dall’Unione europea, è stato formulato dalla Corte di giustizia in modo così tortuoso, che il suo inserimento nel Trattato probabilmente è sembrato troppo arduo.

Una futura revisione in senso costituzionale dovrebbe affrontare questa difficoltà, consentendo ai cittadini di comprendere chiaramente gli effetti del diritto dell’Unione europea e il suo rapporto con le legislazioni nazionali. Ciò richiederebbe una modifica degli articoli 288 TFUE (con riferimento alle direttive) e 216 del TFUE (relativo agli accordi internazionali) e del Trattato dell’Unione europea (effetto diretto del Trattato), mentre il Titolo II del Trattato dell’Unione europea dovrebbe includere il principio dell’effetto diretto dei Trattati.

Infine, la posizione del diritto internazionale nella gerarchia giuridica dell’UE dovrebbe essere chiarita in linea con la dottrina esposta in Kadi II33. Il principio che conferisce all’ordine giuridico dell’Ue uno status autonomo rispetto al diritto internazionale è tanto importante quanto, e parallelo a, quello del primato del Diritto dell’Ue sul diritto degli Stati Membri. I due principi, in effetti, sono fra loro paralleli: così come gli Stati Membri riconoscono il primato del diritto dell’Ue, a condizione che questo rispetti le identità costituzionali nazionali, a sua volta l’Unione e le sue istituzioni rispettano il diritto internazionale a patto che quest’ultimo non violi i principi fondamentali – rectius costituzionali –dell’UE. Si può suggerire che, in una futura revisione in senso costituzionale degli attuali Trattati, questo principio sia reso esplicito, modificando l’Art. 4 del Trattato sull’Unione europea.

III. Occorre a questo punto chiedersi quali strumenti possano essere utilizzati per apportare ai Trattati le modifiche sopra suggerite.

Il trattato di Lisbona può essere modificato, più o meno formalmente, per mezzo di diversi strumenti: le procedure di revisione, le passerelle, i trattati di adesione, e la clausola di flessibilità. Le procedure di revisione sono stabilite dallo stesso Trattato sull’Unione europea34. Mentre in passato era prevista solo una procedura, sul modello delle classiche conferenze diplomatiche di diritto internazionale, il trattato di Lisbona mira a rendere più facile la revisione introducendo due procedure, più semplici e più democratiche (o che quantomeno sembrano tali) di quella precedente. Tuttavia, poiché gli Stati membri vogliono restare ‘Signori dei Trattati’, le nuove procedure sono avvolte da cautele e limitazioni.

L’Art. 48(2) del Trattato sull’Unione europea stabilisce la procedura di revisione ordinaria. Questa procedura può essere avviata da qualsiasi Stato Membro, dal Parlamento europeo o dalla Commissione, ciascuno dei quali può presentare al Consiglio una proposta di modifica dei Trattati. La proposta viene quindi trasmessa al Consiglio europeo e notificata ai Parlamenti nazionali. Se, dopo aver consultato il Parlamento europeo e la Commissione, il Consiglio europeo decide a favore della proposta a maggioranza semplice, allora il presidente del Consiglio europeo convoca una Convenzione. La Convenzione prevede un’ampia partecipazione politica, e può raggiungere una grande visibilità, dal momento che in essa saranno presenti i Parlamentari nazionali, i Capi di Stato o di Governo di tutti gli Stati Membri, e dei membri del Parlamento europeo e della Commissione, mentre la Banca Centrale Europea è consultata solo se i cambiamenti istituzionali riguardino la politica monetaria.

La previsione del coinvolgimento di una Convenzione, sul modello della precedente esperienza della Carta dei Diritti Fondamentali, rende la nuova procedura di revisione ordinaria più democratica, trasparente e partecipata rispetto alla procedura a porte chiuse delle tradizionali Conferenze Intergovernative (CIG), con cui tutte le revisioni dei Trattati dell’UE sono state finora negoziate (incluso il passaggio dal testo del Trattato costituzionale al Trattato di Lisbona).

Tuttavia, la Convenzione non può adottare emendamenti, li può solo proporre, per consenso, ad una CIG. Inoltre, il ricorso a una Convenzione può essere aggirato se il Consiglio europeo – a maggioranza semplice e con il consenso del Parlamento europeo – decide che la convocazione di una Convenzione non è ‘giustificata dalla portata delle modifiche proposte’: in questo caso le modifiche saranno discusse da una CIG. Spetterà dunque al Parlamento europeo, il cui consenso è necessario, evitare che la nuova procedura di revisione ordinaria prenda una deriva intergovernativa.

Una volta che la CIG ha raggiunto un accordo, gli emendamenti entreranno in vigore allorché tutti gli Stati Membri abbiano ratificano le modifiche ai Trattati, conformemente alle loro rispettive norme costituzionali. Alla luce delle difficoltà incontrate nel lungo processo che ha portato alla firma del Trattato di Lisbona, viene ora previsto (Art. 48(5) TUE) che se un trattato di revisione sia stato firmato, ed entro due anni quattro quinti degli Stati Membri lo abbiano ratificato, ma uno o più Stati Membri stia incontrando difficoltà con la ratifica, la questione venga deferita al Consiglio europeo.

Pur se il deferimento al Consiglio appare ovviamente dal punto di vista giuridico un’arma spuntata contro gli Stati riluttanti, esso potrebbe essere più efficace, dal punto di vista politico, se combinato con l’idea che un gruppo ristretto di Stati porti avanti il processo in ogni caso, per mezzo dell’integrazione differenziata.

La procedura di revisione ordinaria è già stata utilizzata per adottare prima un protocollo volto ad aumentare il numero dei membri del Parlamento europeo, e poi il protocollo concernente gli interessi del popolo irlandese sul Trattato di Lisbona35. In entrambi i casi, in accordo con il Parlamento europeo, nessuna Convenzione è stata convocata.

La seconda procedura di revisione è prevista all’Art. 48(6) del Trattato sull’Unione europea, che introduce una nuova procedura semplificata, in cui non è necessaria né la Convenzione né una CIG. Questa procedura può essere utilizzata solo per modificare le disposizioni della Parte Terza del TFUE, in materia di politiche e azioni interne dell’UE, e non può essere utilizzato per estendere le competenze che i trattati attribuiscono all’Unione. In base a questa procedura, il governo di qualsiasi Stato Membro, il Parlamento europeo o la Commissione può sottoporre una proposta al Consiglio europeo. Quest’ultimo decide all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione. Tale decisione, pur non richiedendo la firma di un Trattato (in effetti rappresenta essa stessa un accordo concluso in seno al Consiglio europeo), non entrerà in vigore fino a quando gli Stati Membri la approveranno conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.

La nuova procedura di revisione semplificata è già stata utilizzata per creare il meccanismo europeo di stabilità (ESM)36. Il 25 marzo 2011 il Consiglio europeo ha adottato la decisione di aggiungere un nuovo paragrafo all’art. 136 del TFUE37. Poiché quest’ultimo articolo si riferisce agli Stati Membri, e non all’UE, il divieto di ampliare le competenze dell’UE sembra essere stato rispettato.

Tuttavia, tale decisione, assieme allo stesso Trattato ESM, è stata esaminata criticamente, anche se poi ritenuta valida, dalle Corti costituzionali estone 38 e tedesca39. La Corte di Giustizia europea ha illustrato la sua posizione in Pringle40, decidendo del rinvio pregiudiziale di validità sollevato dalla Corte Suprema Irlandese, la quale chiedeva se la decisione -ed il Trattato poi adottato sul piano internazionale- fossero in contrasto con il divieto di cui all’Art. 48(6). La Corte ha deciso che la questione di validità era infondata, in quanto non esiste una competenza dell’UE ad adottare un provvedimento come il Meccanismo Europeo di Stabilità Quest’ultimo pertanto era stato legittimamente fatto oggetto di un trattato internazionale concluso dai Membri dell’eurozona. La Corte non ha esitato ad affermare, inoltre, che la formazione del Trattato MES non aveva violato l’art. 3(2) del TFUE (in base al quale l’Unione europea è unicamente competente a concludere accordi internazionali concernenti il ​​Diritto dell’Ue), per il fatto che il trattato istitutivo del MES riguarda la stabilità dell’area euro, mentre secondo i Trattati la competenza dell’Unione europea si riferisce alla stabilità dei prezzi.

L’approccio della Corte in Pringle contiene però un paradosso: se – come é chiaramente stabilito in applicazione del principio di attribuzione – tutte le competenze non attribuite all’UE appartengono dagli Stati Membri, e se davvero l’UE non ha alcuna competenza ad adottare un meccanismo come l’MES, perché allora sarebbe stato necessario modificare l’Art. 136, al fine di dare agli Stati dell’eurozona il potere di fare qualcosa che già ricadeva nella loro competenza?

Sembra dunque chiaro che la Corte ha deciso il caso sotto la pressione della crisi economica e della necessità di consentire l’adozione di qualsiasi misura che potesse salvare l’euro. Ma questa sentenza costituisce un precedente che potrebbe in futuro aprire le porte all’applicazione della procedura speciale di revisione anche ad altri casi limite.

Può poi ricordarsi un ulteriore strumento che può in certi casi essere usato per la revisione, seppure indirettamente. Esso è imperniato sulle procedure decisionali dell’UE mediante le le c.d. passerelle, vale a dire decisioni unanimi del Consiglio europeo, in grado di modificare le basi giuridiche previste dal TFUE e al Titolo V TUE41: in questi casi l’unanimità può essere sostituita da maggioranza qualificata, e le procedure legislative speciali dalla procedura legislativa ordinaria. Le condizioni specifiche sono prescritte dall’Art. 48(7) TUE: tali decisioni devono essere approvate dal Parlamento Europeo a maggioranza dei suoi membri e devono essere notificate ai Parlamenti nazionali; se un Parlamento nazionale si oppone entro sei mesi, la decisione non sarà adottata.

Le passerelle sono state introdotte dal Trattato di Amsterdam come una forma di revisione semplificata, allo scopo di rendere le procedure legislative più semplici o più democratiche. Esse non sono state utilizzate finora (tutte le modifiche delle procedure legislative sono infatti state sin qui stabilite dalla procedura di revisione tradizionale), e sembra improbabile che siano utilizzate nel prossimo futuro.

Una decisione unanime del Consiglio europeo non sarà certo facilitata dal potere di veto che ciascun Parlamento nazionale ora dispone ai sensi dell’Art. 48(7)TUE, il c.d. ‘freno di emergenza’, previsto anche con riferimento ad altre passerelle ‘speciali’42 introdotte dal Trattato di Lisbona. Poiché tuttavia tale potere di veto non è previsto dall’Art. 333 TFUE, potrebbe essere più facile semplificare le procedure legislative attraverso la cooperazione rafforzata.

Alcune modifiche minori al Trattato di Lisbona potrebbero essere poi apportate mediante la cosiddetta clausola di flessibilità (Art. 352 TFUE), che può essere usata per colmare una lacuna quando un obiettivo relativo alle politiche previste dal Trattato (con esclusione della PESC) non possa essere raggiunto mediante la base giuridica contenuta nel Trattato stesso. L’utilizzo della clausola di flessibilità, comunque soggetto al voto unanime in Consiglio, ora richiede l’approvazione del Parlamento europeo, nonché uno specifico avvertimento della Commissione ai Parlamenti nazionali.

Infine, in taluni casi anche un Trattato per l’adesione all’UE di un nuovo Stato Membro potrebbe essere utilizzato per modificare il Trattato di Lisbona. Non qualunque modifica potrebbe tuttavia essere apportata per mezzo di un Trattato di adesione: infatti, poiché l’Art. 49 del TUE si riferisce alle rettifiche, non agli emendamenti, necessari per l’adesione di un nuovo Stato, potrebbero essere introdotte solo quelle modifiche che si dimostrino veramente necessarie per tale adesione. Ciononostante in occasione dell’adesione della la Croazia è stato allegato al Trattato di Lisbona il Protocollo riguardante la questione Irlandese 43. Il Parlamento europeo ha invece respinto una richiesta della Repubblica Ceca di un’estensione del Protocollo Anglo-Polacco relativo alla Carta dei Diritti Fondamentali44.

Certo, dal punto di vista del diritto internazionale, un trattato di adesione concluso e ratificato da tutti gli Stati Membri dell’Unione europea ha lo stesso status del Trattato di Lisbona e potrebbe prevalere come lex posterior. Tuttavia, la Corte di Giustizia non ammetterebbe che un simile strumento venga utilizzato per aggirare le procedure di revisione previste dal Trattato quando ciò possa comportare una violazione delle prerogative di alcune Istituzioni europee45. In realtà, una volta che il Parlamento europeo abbia dato il suo consenso ad un Trattato di adesione negoziato dalla Commissione, sarebbe difficile immaginare quest’ultima avviare una procedura d’infrazione contro tutti gli Stati Membri per la firma di un trattato di adesione che violi il trattato di Lisbona. Meno remota, ma comunque improbabile, sarebbe l’ipotesi di una sentenza da parte di una Corte Costituzionale nazionale che stabilisca che il Parlamento nazionale ha erroneamente ratificato il Trattato di adesione in violazione della Costituzione nazionale.

In conclusione, il Trattato di Lisbona ha cercato di ripensare il sistema di revisione dei Trattati dell’Unione europea, in modo da renderlo più praticabile. Diverse innovazioni vanno in questa direzione: due esempi sono la possibilità per il Consiglio europeo di adottare a maggioranza semplice una decisione di indire una Convenzione secondo la procedura ordinaria, e la peer pressure che potrebbe influenzare gli Stati membri se entro due anni meno di un quinto di loro non abbia ratificano una revisione.

Ma il ricorso persistente all’unanimità – un retaggio di diritto internazionale che continua a conferire all’UE il sapore di una organizzazione internazionale – renderà non facile ogni revisione in un’Unione di ventotto membri. Può essere quindi utile chiedersi quale tipo di revisione sia richiesto per apportare le modifiche indicate nei paragrafi precedenti, e cosa invece possa essere cambiato nell’attuale quadro dell’UE senza il ricorso a strumenti di revisione.

IV. Ripercorrendo in senso inverso i problemi che si sono sin qui illustrati, si può innanzitutto affermare che tutte le modifiche volte a rendere più chiaro il sistema delle relazioni fra ordinamenti nazionali e ordinamento UE richiederebbero modifiche del TUE e della parti I e VI del TFUE che potrebbero essere introdotte solo con la procedura di revisione ordinaria.

Alla stessa conclusione si deve giungere per le modifiche istituzionali, prima fra tutte l’elezione diretta del Presidente della Commissione.

Tuttavia, alcune questioni relative alla democrazia europea e alla crisi della cittadinanza dell’UE potrebbero essere affrontate senza revisione dei Trattati. In una recente risoluzione non legislativa proposta da Andrew Duff 46, approvata in plenaria il 4 luglio 2013 il Parlamento europeo ha formulato una serie di raccomandazioni volte a migliorare le elezioni europee: le campagne elettorali dovrebbero essere concentrate sulle questioni europee; i partiti nazionali dovrebbero indicare chiaramente nella loro campagna il Partito europeo del quale faranno parte, e dovrebbero designare in anticipo il candidato in corsa per la Presidenza della Commissione. Se i partiti nazionali accogliessero queste raccomandazioni, si compierebbe un passo significativo verso un quadro istituzionale più democratico ed elezioni europee più coinvolgenti.

Possono poi essere immaginate altre innovazioni volte ad aumentare la democrazia istituzionale e che non comportino la necessità di revisionare il Trattato: ad esempio, il Parlamento europeo potrebbe adottare una risoluzione che richiede ad ogni Commissario di riferire individualmente ogni anno sulle attività della propria DG.

Quanto ai temi legati alla crisi economica ed alla governance dell’eurozona, è proprio con riferimento ad essi che sta aumentando la pressione per una revisione dei Trattati.

Un confronto tra i paragrafi 2 e 6 dell’Art. 48 del Trattato dell’Unione europea mostra chiaramente che le competenze dell’UE, come pure i suoi profili istituzionali, possono essere modificati solo mediante la procedura di revisione ordinaria. Come si è visto nel par. I, sarebbe altamente auspicabile l’abbandono del metodo di coordinamento aperto nelle materie della politica economica e della politica occupazionale, in quanto l’attuale quadro delle competenze conferisce all’UE solo la possibilità di adottare azioni di supporto alle politiche economiche degli Stati membri. Tale abbandono richiederebbe una procedura di revisione ordinaria, in quanto per conferire una più incisiva competenza all’UE in queste materie sarebbe necessario modificare gli artt. 2.3 ,5.1 e 5.2 TFEU 47.

Quanto invece alle politiche sociali dell’Ue, altro tema in cui l’azione attuale risulta inefficace, esse, alla luce dei trattati attuali, dovrebbero essere regolamentate, ove possibile, come competenze concorrenti, con un pieno utilizzo del metodo comunitario, anziché del metodo aperto di coordinamento. Ciò sarebbe possibile interpretando gli Articoli 4(2)(b) e 5(3) del TFUE in modo da espandere il primo e limitare il secondo. Si può infatti argomentare che, poiché l’Art. 5(3) riguarda le politiche sociali degli Stati Membri, non si può impedire all’Unione europea di sviluppare una politica sociale a livello europeo.

Altri provvedimenti importanti potrebbero essere adottati senza modificare i trattati anche in materia di governance economica, la cui riforma è stata individuata dalla Commissione come particolarmente urgente 48. Secondo alcuni studiosi, si dovrebbe istituire una struttura federale più forte, che richiederebbe un’ unione bancaria, e un’unione politica, un’unione economica e fiscale, un tesoro europeo49. Alcune di queste misure potrebbero essere adottate con le basi giuridiche del mercato interno, ad esempio in campo bancario50. La materia fiscale non pone problemi di competenza dell’UE (rientrando fra le competenze concorrenti), ma è paralizzata da una base giuridica che impone l’unanimità, lasciando aperta la alternativa (particolarmente scomoda in queste materie in cui esiste una concorrenza fiscale fra Stati) di una cooperazione rafforzata.

Anche l’eurozona potrebbe essere rafforzata senza modificare il Trattato di Lisbona. Com’è stato proposto dai quattro Presidenti51, uno strumento efficace nella lotta contro la crisi per conferire stabilità all’euro potrebbe consistere in un bilancio separato della zona euro, finanziato con risorse proprie della zona euro. Alcuni autori suggeriscono che un tale strumento potrebbe essere istituito ai sensi dell’Art. 136(3) TFUE attraverso un Trattato stipulato dai Membri dell’area euro52. Occorre poi ricordare che secondo l’Art. 126(14), del TFUE, il Protocollo n. 12, sulla procedura per i disavanzi eccessivi, può essere sostituito da disposizioni adottate dal Consiglio che delibera all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea.

D’altra parte, sembra che ciò che impedisce all’UE di prendere provvedimenti più radicali per affrontare la crisi, nei suoi vari aspetti che si sono sin qui illustrati, non sia tanto la mancanza di basi giuridiche nei Trattati esistenti, quanto piuttosto una carenza di volontà politica. Per questo motivo, in alcune aree la soluzione potrebbe essere il ricorso alla cooperazione rafforzata tra un gruppo di Stati membri pionieri. Il rischio però, naturalmente, è che si creino un gran numero di circoli di integrazione non coincidenti nelle diverse aree.

In ogni caso la cooperazione rafforzata non può essere una soluzione per affrontare le questioni istituzionali, perché il quadro istituzionale non può essere ridisegnato in scala minore; ed inoltre qualsiasi modifica di tale quadro richiederebbe una revisione dei Trattati. Questo sarebbe il caso, per esempio, se si volesse introdurre l’elezione diretta del Presidente della Commissione, o fondere tale carica con quella di Presidente del Consiglio europeo: cambiamenti di questa portata, che mirano ad innovare la struttura istituzionale attuale dell’Unione europea, non sono attuabili con le norme dei Trattati esistenti.

V. Secondo Steve Peers, l’Unione europea è passata da un periodo caratterizzato da un numero ridotto di grandi modifiche dei Trattati ad un periodo che comporterà un maggior numero di piccole modifiche degli stessi53. Questa osservazione è abbastanza condivisibile, dato che, come si è visto, la revisione del sistema attuale potrebbe procedere attraverso molti canali diversi. Prima o poi, tuttavia, sarà necessario esaminare il significato e la coerenza delle varie riforme settoriali. Tenendo conto di quanto l’Ue viene accusata di scarsa democrazia e di inefficacia, dovrebbe essere terminato il periodo delle riforme concepite da élites illuminate, negoziate attraverso espedienti diplomatici, e nascoste alla vista del pubblico.

Ad un certo punto poi gli Stati Membri dell’UE dovranno affrontare una questione più radicale: se continuare a revisionare parzialmente i Trattati o rifondare del tutto l’Unione europea. Avranno allora tre scelte fondamentali: potranno rimpatriare i poteri, con la relativa dissoluzione dell’attuale Unione europea; potranno procedere verso una federalizzazione strisciante la cui ambiguità può essere accettata, se non da tutti, almeno dalla maggior parte degli Stati Membri; o infine potranno procedere attivamente verso una federazione europea.

In quest’ultimo caso, tuttavia, si potrebbe spostare il potere dal livello nazionale a quello sovranazionale solo se quest’ultimo divenga responsabile nei confronti dei cittadini. Inoltre, una federazione europea, oltre a rispettare il principio di sussidiarietà, dovrà dimostrare di meritare i poteri ad essa conferiti, cioè, dovrà dimostrare che può effettivamente perseguire e realizzare l’interesse generale, piuttosto che accontentarsi di qualunque compromesso gli Stati Membri raggiungano a livello intergovernativo, perché se questo è il gioco, allora gli Stati più potenti avranno sempre la meglio, e non si può pretendere che gli altri attribuiscano alcuna fiducia sull’Unione europea.

Una Federazione così descritta richiede una revisione esplicita e approfondita dei Trattati attuali, una revisione che di conseguenza potrebbe essere sostenuta solo da un piccolo numero di stati.

Non è tuttavia facile identificare quali Stati dovrebbero farsi promotori di un nocciolo di avanguardia: si potrebbe ritenere che questi debbano essere i membri dell’eurozona, che già costituisce una forma di integrazione avanzata e che per il suo stesso buon funzionamento richiede, come si è visto, una maggiore integrazione in aree complementari; tuttavia gli Stati dell’euro hanno al momento propensioni assai diverse verso un approfondimento dell’integrazione.

Inoltre, se da un lato non tutti questi stati sono ugualmente disposti a compiere ulteriori passi nel cammino dell’integrazione, dall’altro alcuni passi sono poi adottati anche su una scala più ampia dell’eurozona, come mostra l’esempio del Fiscal Compact54.

La stessa riconduzione del Fiscal Compact, prescritta dal suo art. 16 nell’alveo dei Trattati UE, suscita contrastanti reazioni: negative in chi non vuole scolpire nella pietra la regola aurea del pareggio di bilancio, positiva per chi vede in quel Trattato una sconfitta del metodo comunitario e dei principi di democrazia, accountability e trasparenza, nonché una frammentazione e debolezza del quadro istituzionale. Vari strumenti potrebbero essere utilizzati a questo scopo55. Innanzitutto si potrebbe ripercorrere l’esperienza fatta per l’integrazione degli accordi di Schengen e del loro acquis, procedendo alla revisione dei trattati UE e TFUE ed utilizzando dei protocolli di opt out per egli Stati che non desiderino condividerlo. Oppure si potrebbe lasciare in vita gli accordi sul piano internazionale, trasformando via via in atti dell’UE quelle parti che trovino il consenso degli Stati membri, come sta avvenendo per gli accordi di Prüm56.

Naturalmente, per quanto non si intraveda al momento una volontà politica per adottarle, sono ipotizzabili anche soluzioni più radicali. Si potrebbe immaginare uno scenario di due Trattati ben diversi dagli attuali TUE e TFUE: un trattato per l’eurozona, che disciplini la moneta, l’economia e l’occupazione, nonché quant’altro sia funzionale all’euro (con un ritorno appunto al metodo funzionalista), ed un trattato più ampio cui partecipino tutti gli attuali Stati membri (e forse anche altri) in cui rimangano l’attuale acquis, inclusi lo spazio di libertà sicurezza e giustizia e la PESC.

Il primo Trattato dovrebbe comprendere un tesoro europeo, la possibilità di emettere eurobonds, un Ministro del Tesoro europeo ed una bilanciata formulazione dei principi di rigore e di solidarietà,57 . Il secondo Trattato dovrebbe invece riguardare l’UEM e gli aspetti ad essa collegati, nonché una politica economica e occupazionale comune. Il primo Trattato, che per questo aspetto tornerebbe ad una fase pre-Maastricht, potrebbe risultare appetibile a Paesi come il Regno Unito che sognano una repatriation of powers. I due Trattati dovrebbero essere collegati e complementari, sottoposti ad un unico quadro istituzionale, senza però attribuire agli stati non-euro alcun veto su misure che siano necessarie al buon funzionamento dell’eurozona.

Ad una simile soluzione si potrebbe pervenire in due modi: uno consensuale, basato sulla revisione degli attuali Trattati, o uno più traumatico, che consiste nel recesso di un ampio numero di Stati dai Trattati attuali, con contestuale rifondazione di una diversa entità. Il primo metodo sembra evidentemente di gran lunga preferibile all’altro. L’Unione europea sta diventando sempre più un’area di integrazioni differenziate e dovrà affrontare in maniera crescente il problema se perseguire su un terreno di innovazione pauca multis (poco per molti) o su uno multa paucis (molto per pochi). O forse, come si suggerisce, cercare di contemperare le due cose, in uno spirito di leale cooperazione.

Questo sarebbe il modo per compiere un salto costituzionale, anche se forse Achille non raggiungerebbe ancora il traguardo dello Stato federale, essendo lui stesso diventato nel tempo una tartaruga.

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